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Processo esecutivo per un pugno di euro? Un abuso del creditore

L’impulso dato dal creditore alla procedura esecutiva (istanza di vendita e conseguente notifica della fissazione dell’udienza ex articolo 569 c.p.c.) successivamente all’integrale pagamento dell’importo precettato, costituisce un esercizio abusivo del processo esecutivo in quanto non vi è corrispondenza tra il mezzo processuale (impulso all’azione esecutiva) ed il suo fine (soddisfacimento del credito consacrato nel titolo esecutivo). In proposito, occorre ricordare che quand’anche dopo il pagamento fosse residuato un credito per spese legali o per interessi, è onere del creditore di sollecitare, prima di procedere o proseguire in via esecutiva, il debitore ad un adempimento spontaneo del modestissimo residuo: inadempiuto il quale, procedere o proseguire in via esecutiva è contrario a buona fede o comunque non risponde ad un interesse giuridicamente tutelabile nell’attuale contesto normativo (Cass. 25224/2015).

Una volta accertata la condotta abusiva del creditore, consistente nell’illegittima prosecuzione del processo esecutivo, dopo che era stato integralmente pagato l’importo precettato e non era stato richiesto l’adempimento spontaneo per spese successive eventualmente maturate successivamente alla notifica del precetto, occorre procedere all’eliminazione delle conseguenze dell’uso distorto del processo, mediante il ripristino o il conseguimento della situazione processuale e sostanziale che si sarebbe avuta se la distorsione non avesse avuto luogo e far luogo, quindi, alla dichiarazione di inefficacia degli atti di impulso della procedura successivi al pagamento dell’importo precettato ed alla conseguente dichiarazione di inefficacia, rilevabile d’ufficio, del pignoramento ai sensi dell’articolo 497 c.p.c.

La cognizione piena che dovrebbe seguire la fase camerale del giudizio di opposizione ex art. 185 disp. att. c.p.c. è ora meramente eventuale (art. 616 c.p.c.), in quanto è rimesso alla parte di valutare se iscrivere o meno la causa a ruolo contenzioso e dar corso alla cognizione piena.

Il provvedimento del giudice dell’esecuzione che accordi o neghi la sospensione, indipendentemente dall’applicabilità dell’articolo 669-septies, commi 2 e 3, c.p.c., ha attitudine a definire la vicenda davanti a sé qualora non segua l’iscrizione a ruolo contenzioso della causa di opposizione nel termine perentorio di cui all’articolo 616 c.p.c.

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Di seguito il testo della sentenza:

Tribunale di Monza

sent. del 19 febbraio 2016.

Giudice Giovanni Battista Nardecchia

(omissis)

letta l’istanza di sospensione dell’esecuzione formulata da parte ricorrente;

premesso che la presente procedura trae origine da un atto di pignoramento immobiliare notificato in data 9 gennaio 2014, iscritto per il recupero della somma di Euro 7.258,48; una volta ricevuta la notifica dell’atto di pignoramento immobiliare il padre della debitrice Dott. F.G., ha preso contatto con il legale del creditore procedente per definire la posizione in ordine ai suddetti accordi il debito è stato integralmente saldato a mezzo di due rimesse mediante assegni bancari, l’una in data 17 gennaio 2014 e l’altra in data 17 febbraio 2014 (doc. 1); per entrambe le rimesse il debitore ha ottenuto la fattura quietanzata (doc. 2); in forza di tali circostanze si assumeva il venir meno del diritto a procedere ad esecuzione forzata avendo la debitrice esecutata provveduto ad estinguere il proprio debito e si concludeva chiedendo: in via preliminare sospendere (ovvero confermare la sospensione pronunciata inaudita altra parte) l’esecuzione immobiliare iniziata nei confronti della sig.ra C.G. sussistendone i presupposti di legge.

Nel merito: accertare e dichiarare che la creditrice procedente non ha diritto a procedere ad esecuzione forzata avendo parte debitrice provveduto ad estinguere il proprio debito sin dal febbraio 2014, e per l’effetto, condannare, ai sensi dell’art. 96 comma II c.p.c., il creditore procedente al risarcimento del danno.

Si costituivano gli eredi di G.V. ed intervenivano nella procedura vantando un credito di Euro 5.077,98, residuante al maggior credito di Euro 33.177,98, credito che traeva origine da una serie di titoli giudiziali prodotti in causa, dedotti i vari acconti pagati dalla debitrice, ivi compreso quello di Euro 7.258,48 relativo al precetto posto alla base dell’esecuzione.

Come è ben noto le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato il principio secondo il quale “Nel processo di esecuzione forzata, la regola secondo cui il titolo esecutivo deve esistere dall’inizio alla fine della procedura va intesa nel senso che essa presuppone non necessariamente la costante sopravvivenza del titolo del creditore procedente, bensì la costante presenza di almeno un valido titolo esecutivo (sia pure dell’interventore) che giustifichi la perdurante efficacia dell’originario pignoramento. Ne consegue che, qualora, dopo l’intervento di un creditore munito di titolo esecutivo, sopravviene la caducazione del titolo esecutivo comportante l’illegittimità dell’azione esecutiva dal pignorante esercitata, il pignoramento, se originariamente valido, non è caducato, bensì resta quale primo atto dell’iter espropriativo riferibile anche al creditore titolato intervenuto, che prima ne era partecipe accanto al creditore pignorante. Nel processo di esecuzione forzata, al quale partecipino più creditori concorrenti, le vicende relative al titolo esecutivo del creditore procedente (sospensione, sopravvenuta inefficacia, caducazione, estinzione) non possono ostacolare la prosecuzione dell’esecuzione sull’impulso del creditore intervenuto il cui titolo abbia conservato la sua forza esecutiva. Tuttavia, occorre distinguere: a) se l’azione si sia arrestata prima o dopo l’intervento, perché nel primo caso, non esistendo un valido pignoramento al quale gli interventi possano ricollegarsi, il processo esecutivo è improseguibile; b) se il difetto del titolo posto a fondamento dell’azione esecutiva del creditore procedente sia originario o sopravvenuto, posto che solo il primo impedisce che l’azione esecutiva prosegua anche da parte degli interventori titolati, mentre il secondo consente l’estensione in loro favore di tutti gli atti compiuti finché il titolo del creditore procedente ha conservato validità” (Cass. s.u. n. 61/2014). Per quel che interessa ai fini della risoluzione del caso di specie quel principio di fondo non trova applicazione nel caso in cui uno o più creditori, muniti di titolo esecutivo, intervengano nel processo esecutivo dopo che sia stata pronunciata la caducazione del titolo esecutivo del creditore procedente e, quindi, sia sopravvenuta l’illegittimità dell’azione esecutiva da lui esercitata. In questa ipotesi, il pignoramento, relativo a processo nel quale non sia ancora intervenuto alcun creditore munito di titolo esecutivo, diviene invalido e rende illegittima l’azione esecutiva fino a quel momento esercitata. Sicché, non esistendo un valido pignoramento al quale ricollegarsi, il processo esecutivo è ormai improseguibile e non consente interventi successivi. Il principio è da intendersi riferito all’ipotesi di sopravvenuta invalidità del titolo esecutivo derivata dalla c.d. caducazione.

Nel caso di specie la successione degli eventi è caratterizzata dalla notifica di un atto di pignoramento per il pagamento della somma di Euro 7.258,48 in forza del dispositivo della sentenza n. 2297/2013 del tribunale di Monza, dalla corresponsione della somma tra il gennaio ed il febbraio 2014, con precisa imputazione da parte dell’Avvocato del creditore, nella quietanza, al pagamento dell’importo portato dalla sentenza n. 2297/2013, dalla notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza ex art. 569 c.p.c., dal deposito dell’opposizione ex art. 615 c.p.c., dall’intervento degli eredi del V. per un importo residuo fondato su titoli diversi da quello originariamente azionato.

Dal che è necessario interrogarsi se nel caso di specie l’originario pignoramento sia caducato per fatto sopravvenuto prima del successivo intervento depositato dalle eredi del V. Secondo i giudici della suprema corte “Non è assimilabile alla situazione di mancanza ab origine di titolo esecutivo la situazione che viene a determinarsi quando il titolo esecutivo di formazione giudiziale, che sia astrattamente riconducibile alla previsione dell’art. 474, comma 2o, n. 1 c.p.c., “venga meno” in ragione delle vicende del processo nel quale si è formato, cioè sia caducato per fatto sopravvenuto.

Si intende dire che, in tale ultima eventualità, ai fini dell’applicazione del principio di “conservazione” del processo esecutivo in cui siano presenti creditori titolati, non rileva – né occorre verificare, in sede esecutiva e/o oppositiva – se il titolo esecutivo di formazione giudiziale sia venuto meno con efficacia ex tunc ovvero ex nunc, in ragione degli effetti del rimedio esperito nella sede cognitiva. Così, esemplificando, ad infausta sorte sono destinati gli interventi titolati nel caso in cui il creditore procedente abbia azionato un provvedimento non idoneo, nemmeno in astratto, a fondare l’azione esecutiva (quali, ad esempio, la sentenza inesistente o di condanna generica o il decreto ingiuntivo privo di efficacia esecutiva), non anche quando il provvedimento, costituente titolo esecutivo al momento di esercizio dell’azione esecutiva, sia venuto meno per le vicende del processo nel quale si è venuto a formare. In particolare, quanto a tale ultima eventualità, è indifferente se, in caso di sentenza, si sia trattato di impugnazione ordinaria o straordinaria, ovvero, in caso di decreto ingiuntivo, si sia trattato di revoca per difetto dei presupposti ex art. 633 c.p.c., ovvero per accoglimento nel merito dell’opposizione, o, in caso di ordinanza di condanna provvisoriamente esecutiva, si sia trattato di revoca o di modifica per ragioni di rito o di merito, etc.

In tutte queste ipotesi, il processo esecutivo iniziato in forza di titolo esecutivo, all’epoca valido, non è travolto in presenza di creditori intervenuti con titolo esecutivo tuttora valido. In conclusione, rileva che l’esecuzione forzata risulti formalmente legittima, anche se, per ipotesi, sia sostanzialmente ingiusta, essendo perciò sufficiente – affinché il creditore intervenuto con titolo non subisca gli effetti del venir meno dell’azione esecutiva del creditore procedente – che esista un titolo esecutivo in favore di quest’ultimo, non anche che sia esistente il diritto di credito in esso rappresentato”.

Dal che ne deriva che nel caso di specie, avendo il titolo natura giudiziale (sentenza passata in giudicato) ed essendo stata semplicemente proposta un’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. per far valere la successiva estinzione del credito, non vi sono dubbi sul fatto che al momento dell’intervento delle eredi del V. il titolo esecutivo azionato non fosse caducato. L’opponente denuncia che, nonostante l’avvenuta estinzione del debito, il creditore in spregio a qualsiasi dovere di buona fede e correttezza, non solo non ha provveduto a fare dichiarare la estinzione della procedura ma l’ha addirittura coltivata e le ha dato impulso, facendo notificare, in data 3 dicembre 2015, copia del decreto di fissazione udienza ex art. 569 c.p.c. alla debitrice esecutata. La recente giurisprudenza della suprema corte ha ritenuto applicabile la figura dell’abuso anche nell’ambito del processo esecutivo.

Secondo una fondamentale decisione della Cassazione “È infatti evidente l’identità di ratio in ordine all’applicazione, pure in ambito processuale e nel contesto dei canoni costituzionalizzati del giusto processo, del principio di buona fede, allo stato già affermato per il processo di cognizione (cfr. Cass. Sez. Un., 15 novembre 2007, n. 23726, seguita poi, tra le altre, da: Cass. 20 novembre 2009, n. 24539; Cass. Sez. Un., 22 dicembre 2009, n. 26961; Cass. 18 marzo 2010, n. 6597; Cass. 22 dicembre 2011, n. 28286).

La giurisprudenza di questa Corte ha rilevato la costituzionalizzazione del canone generale di buona fede oggettiva e di correttezza, quale estrinsecazione del dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., siccome tendente a comprendere nella funzione del rapporto obbligatorio pure la tutela della controparte, nel perseguimento di un giusto equilibrio tra gli opposti interessi. E dall’operatività del principio di buona fede sul piano negoziale, ove ad esso sono riconosciuti effetti modificativi od integrativi dell’autoregolamentazione delle parti, si è fatta derivare la sua estensione o proiezione anche nel campo processuale, nel quale i diritti stessi devono trovare tutela nella patologica evenienza della loro contestazione o mancata spontanea applicazione. Così, l’esigenza di un tale originario equilibrio nel rapporto obbligatorio va mantenuta ferma in ogni successiva fase, sicché quell’equilibrio non può essere alterato in danno del debitore ad iniziativa unilaterale del creditore, se non a prezzo di un autentico abuso del processo; nozione che presuppone l’esercizio del potere da parte di chi ne è pur sempre titolare legittimo, ma per scopi diversi da quelli per i quali quel potere è riconosciuto dalla legge: scopi ulteriori e deviati, in genere extraprocessuali, rispetto a quelli tipici ed usuali, tanto che l’abuso si caratterizza nel “fine esterno” dell’iniziativa processuale, cioè nella non corrispondenza tra il mezzo processuale ed il suo fine. Fine del processo esecutivo è certo il soddisfacimento del credito consacrato nei titolo esecutivo in favore del creditore ed in danno del debitore, ma evidenti esigenze sistematiche di equità, economicità e proficuità del processo, impongono che tanto avvenga con il minor possibile sacrificio delle contrapposte ragioni di entrambi i soggetti vale a dire, il creditore ha diritto ad ottenere né più ne’ meno di quanto gli compete in forza del titolo (sia pure, se necessario, avendo la facoltà di azionarlo più volte o con più procedure, comunque non oltre l’integrale soddisfacimento del credito e con il limite del divieto del cumulo… ai sensi dell’art. 483 c.p.c.), ma va correlativamente tutelata anche l’aspettativa del debitore a non vedere diminuito il suo patrimonio in misura eccedente quanto sia strettamente necessario per la realizzazione del diritto del creditore Una condotta tendente a far conseguire al creditore più di quanto gli compete, come l’ingiustificato azionamento frazionato del credito in origine unitario recato dal titolo implica un’indebita prevaricazione del creditore sulla controparte, sia per l’assoggettamento del debitore ai dispendi originati dall’ingiustificata moltiplicazione dei processi esecutivi, sia per la carenza di causa dell’eventuale locupletazione conseguibile dal creditore, ad esempio per maggiori rimborsi di spese o compensi”.

Nel corso del 2015 la suprema corte è intervenuta più volte ravvisando l’abuso nell’ipotesi in cui il processo esecutivo è stato proseguito per il recupero di somme irrisorie a fronte del pagamento integrale del precetto (Cass. 3 marzo 2015, n. 2015, a mente del quale “l’interesse a proporre l’azione esecutiva, quando abbia ad oggetto un credito di natura esclusivamente patrimoniale, nemmeno indirettamente connesso ad interessi giuridicamente protetti di natura non economica, non diversamente dall’interesse che deve sorreggere l’azione di cognizione, non può ricevere tutela giuridica se l’entità del valore economico è oggettivamente minima e quindi tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell’interesse stesso”. Negli stessi termini Cass. 4228/2015 e Cass. 25224/2015).

Nel caso di specie l’impulso dato dal creditore alla procedura esecutiva, l’istanza di vendita, con la conseguente notifica della fissazione dell’udienza ex art. 569 c.p.c., in data successiva all’integrale pagamento dell’importo precettato (la circostanza non è contestata, cfr. pag. 3 dell’atto di intervento degli eredi V.) costituisce un esercizio abusivo del processo esecutivo in quanto non vi è corrispondenza tra il mezzo processuale (impulso all’azione esecutiva) ed il suo fine (soddisfacimento del credito consacrato nel titolo esecutivo).

Invero quand’anche dopo il pagamento fosse residuato un credito per spese legali o interessi, sussisteva un onere del creditore di sollecitare, prima di procedere o proseguire in via esecutiva, il debitore ad un adempimento spontaneo del modestissimo residuo: inadempiuto il quale, procedere o proseguire in via esecutiva è contrario a buona fede o comunque non risponde ad un interesse giuridicamente tutelabile nell’attuale contesto (Cass. 25224/2015).

Infatti, una volta considerato che per effetto della formazione del titolo giudiziale e della sua esigibilità il debitore è immediatamente tenuto al pagamento e che non è previsto in alcun modo un onere di avviso a carico del creditore procedente circa l’inizio delle attività che portano all’adempimento dell’onere di notifica del titolo esecutivo e del precetto, le spese concernenti tali attività sono da considerare automaticamente causate dal comportamento del debitore di inadempienza a quanto stabilito nel titolo, che si configura statim per effetto della pubblicazione della sentenza (o del provvedimento giudiziale costituente titolo esecutivo).

Onde la loro debenza si giustifica sulla base del principio di c.d. causalità che di norma rappresenta la ragione dell’addebito delle spese del processo a colui che è in torto.

Qualora tuttavia il creditore intenda proseguire l’esecuzione sulla base di ulteriori somme, rimaste impagate, quali, ad esempio quelle per le prestazioni del suo difensore per l’attività successiva alla notifica del precetto, egli ha l’onere di invitare prima il debitore a pagare spontaneamente, quantificando l’importo richiesto (importo che il debitore non può conoscere) potendosi, se del caso, altrimenti “ritenere insussistente il diritto a tali spese, in applicazione analogica del combinato disposto dell’art. 88 c.p.c., e art. 92 c.p.c.” (Cass. 30300/2008). Una volta accertata la condotta abusiva del creditore consistente nell’illegittima prosecuzione del processo esecutivo dopo che era stato integralmente pagato l’importo precettato e non era stato richiesto l’adempimento spontaneo per spese successive eventualmente maturate dopo la notifica del precetto, è necessario interrogarsi sugli effetti di tale affermazione sul successivo intervento titolato degli eredi V. A tale affermazione deve riconoscersi, quanto meno, la conseguenza dell’eliminazione delle conseguenze dell’uso distorto del processo esecutivo, con il ripristino o il conseguimento della situazione processuale e sostanziale che si sarebbe avuta se quella distorsione non avesse avuto luogo.

Il ripristino della situazione processuale e sostanziale che si sarebbe avuta se quella distorsione non avesse avuto luogo comporta, nel caso di specie, l’inefficacia degli atti di impulso della procedura successivi al pagamento dell’importo precettato e, in primo luogo, dell’istanza di vendita depositata in data 7 aprile 2014.

Inefficacia dell’istanza di vendita che determina quella del pignoramento ai sensi dell’art. 497 c.p.c., inefficacia rilevabile d’ufficio.

Sicché, non esistendo un valido pignoramento al quale ricollegarsi, il processo esecutivo era divenuto improseguibile e non consentiva interventi successivi.

Ritenuto conseguentemente che sussistano i presupposti per l’accoglimento dell’istanza di sospensione.

Ritenuto che le spese della fase sommaria della opposizione sulla richiesta di sospensione possono essere liquidate dal G.E. e in tal caso seguono la soccombenza ex art. 91 comma 1 c.p.c. (cfr. sul punto in motivazione Cass. civ. sez. III, 23/7/2009, n. 17266 nonché Cass. civ. sez. III, 27/10/2011, n. 22503).

Ritenuto che infatti la cognizione piena a seguito della fase camerale del giudizio di opposizione ex art. 185 disp. att. c.p.c. e, quindi, del sub – procedimento di sospensione, è ora, secondo l’art. 616 c.p.c., meramente eventuale, perché è rimesso alla parte di valutare se iscrivere o meno la causa a ruolo contenzioso e dar corso alla cognizione piena.

Ritenuto che di conseguenza il provvedimento del G.E. che accordi o neghi la sospensione, indipendentemente dalla applicabilità dell’art. 669 septies commi 2 e 3 c.p.c., ha attitudine a definire la vicenda davanti a sè, qualora non segua l’iscrizione a ruolo contenzioso della causa di opposizione, o non segua nel termine perentorio di cui all’art. 616 c.p.c., e, dunque, si presta ad essere ricondotto al concetto espresso dall’art. 91 c.p.c. (il chiudere il processo davanti a sé).

Ritenuto che le spese della fase camerale seguono la soccombenza ex art. 91 comma 1 c.p.c. e vengono liquidate in considerazione del valore della controversia come da dispositivo.

P.Q.M.

Sospende la procedura esecutiva nr. 12/2014 concede termine perentorio sino al 13 maggio 2016 per l’instaurazione del giudizio di merito previa iscrizione della causa a ruolo, a cura della parte interessata, nel rispetto dei termini a comparire ridotti della metà.

Condanna in solido tra loro L.M., S.V., M.V. e P.V., in qualità di eredi di G.V., a rimborsare a C.G. le spese del giudizio che liquida in complessivi Euro 1.500,00 oltre spese forfetarie ed oneri di legge.

Così deciso in Monza il 19 febbraio 2016. Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2016.

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2 thoughts on “Processo esecutivo per un pugno di euro? Un abuso del creditore”

  1. Seguo sempre con vivo interesse i vostri post, e ammetto molto candidamente, di aver appreso cose che non avrei mai pensato ne che esistessero, e nemmeno fossero così importanti nella quotidianità

    I miei complimenti per tutto quanto fa, per rendere più fruibili e gratuite, tutta questa messa di informazioni, sempre chiare d esaustive

    Chapeau

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